ALMANACCO #13

Su "ghost track" DI marilina ciaco

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di alessia giordano

«Alla fine del nastro c’è sempre un altro nastro». È con questa voce quasi robotica che Marilina Ciaco apre la sua nuova raccolta (Zacinto Edizioni, 2021). Ghost Track inizia con il presentare una stanza – scrostata, disabitata – chiedendo al lettore un atto di fede, di immaginarla come reale. Nella stanza c’è un timer: all’attivazione, inizierà un test psicologico a cui sottoporsi.

Ghost Track non si muove solamente sul piano visuale, ma su quello fonetico, acustico: il piano delle tracce sonore, degli spettrogrammi, delle «vocine». Il nastro – come quello di Möbius – si ripete, portando in sé storie, frammenti di vita: Adler, M., N., Occhiblu. Quattro personaggi che si muovono nella prima sezione della raccolta, introdotti da una voce fuori campo che li chiama e dopo poche righe li lascia scorrere via. Brevi e casuali frame tratti da diverse vite, tutte accomunate dal vivere in una perdita: la perdita della bellezza, di un figlio, del gusto, di un terreno comune con l’interlocutore. Sono alcune delle tante storie che scorrono sul nastro – quella voce iniziale – che non si interrompe mai.

Nella sezione Vite a lunga esposizione, Ciaco inscena il quotidiano bloccato nell’automatismo, nel gesto ripetitivo e alienante («camminano in un momento della giornata che è sempre / le sei del pomeriggio») adottando la prospettiva di un apparecchio fotografico: dei tempi di posa, una cornice, un margine che non viene considerato. Ciò che la pellicola cattura non è altro che una «processione di fantasmi»: minuscole impressioni luminose, movimenti automatizzati, braccia che si avvicinano senza toccarsi. Si attende un intoppo, una stortura, «il rischio che tutti i pos possano incepparsi»: la leva giusta per disinnescare l’esplosione e bloccare il meccanismo.

Da qui, la ricerca di una strada laterale già dichiarata dal citare in epigrafe Volodine e il post-esotismo: è la ricerca di un fuori tempo, di un fuori campo. A rompere questo brusio continuo è l'immagine grottesca che appare nella sesta poesia: la pesca di gamberetti a cavallo, ekphrasis del dipinto Pescatori di Mario Sironi. Citando Sironi e spostando di getto il piano narrativo, Ciaco dà il chiaro segnale che ciò che cerca in Ghost Track non è tanto l’onirico, il fantastico, ma il metafisico: un luogo parallelo alla realtà, una lateralità.  

Ciò stilisticamente è creato attraverso il prelievo di chiacchiere televisive, domande psicologiche («Sei mai stato accusato di fissare le persone?», oppure: «Senti a volte l’istinto di saltare sopra le cose?») trasposte nel testo tramite la tecnica del cut-up; attraverso un continuo straniamento dato da cambi di scena e immagini; con un linguaggio nitido, razionale che però si rivela straniante, robotico, facendo sì che il lettore si muova in una struttura a buchi.

Il test si fa e si rifà da capo alla ricerca di quell’errore, della strada giusta per stare meglio. La stanza iniziale si rivela così essere l’inconscio da esplorare: una stanza in cui non si esce, ma si sprofonda.

Dal nastro escono «tracce fantasma personalizzate», segmenti di «genoma attraverso cui rivendicare un ruolo unico, una disappartenenza, una cicatrice»; storie impresse che prima o poi capita di ascoltare: Adler, M., N., Occhiblu, perché «alla fine del nastro c’è sempre un altro nastro».


da Vite a lunga esposizione


quanto rumore, fuori non c’è nessuno

la leva giusta per disinnescarmi

vorrei cercarla adesso, lei sa dov’è?

io ho undici buchi


il buco giusto per disinnescarmi

 è quello che non vedi, lo nasconde sotto il mento

si è rivoltato, adesso non si trova più

 non trova più le pupille, la peluria, la saliva


non so cosa mi mancasse di quei tempi

il prato artificiale, no, è la chiave che va tolta

la ruota giusta per disinnescarmi

adesso prendi le tue cose e vai via è meglio che tu lo faccia adesso


vive in centro, colpita in centro, è andata al centro

non so se voglio saperlo forse no

noi abbiamo sprecato molte vite

le vite giuste per disinnescarmi