ALMANACCO #11

Su "autoritratto con sciame d'api" DI jan wagner

Per la versione PDF clicca qui

di Beatrice Magoga

Dopo la pubblicazione integrale di Variazioni sul barile dell’acqua piovana (Regentonnenvariationen, 2014), Jan Wagner torna in Italia con Autoritratto con sciame d’api, un’antologia interamente dedicata alla sua opera, dall’esordio di Prove di trivellazione in cielo (Probebohrung im Himmel, 2001) alla più recente Il live butterfly show (Die live butterfly show, 2018). Il progetto Bompiani, curato da Federico Italiano, prende le mosse dall’edizione originale tedesca del 2016, aggiungendovi una serie di più o meno rilevanti modifiche, comunque concordate da autore e curatore assieme.

Se anche un’antologia offre, per sua costituzione, una lettura “frustrata” dalla mancanza dei testi esclusi, quello che in un certo senso si guadagna è una comprensione agile ed estesa dei movimenti, delle posture e delle attitudini del poeta. Nel caso di Jan Wagner, il profilo autoriale è almeno doppio. Si seguono, da un lato, gli spostamenti di un poeta-viaggiatore o poeta-turista che gravita attorno a oggetti noti, a piante e animali esotici o locali («bustina di té, carpe, pomodori, agurkai, tucano»), che retrocede al passato per dare voce a eventi e personaggi della storia («il passero di Guericke, saint-just, colombo»), e che si muove di luogo in luogo per annotare «il muto linguaggio delle cose» (p.69), «la scrittura / dell’alga» (p.71) (ricordando «las vegas, ecloga di eberhardzell, australia»). Dall’altro, il gusto è decisamente quello di un cultore dell’arte culinaria.

Con buona disinvoltura, Jan Wagner si cimenta nel ricercare una sempre nuova “farcitura” per le forme ormai canonizzate della tradizione (ci si imbatte facilmente in sonetti, sestine, haiku, terzine in rima dantesca), prendendo come punto di partenza l’occasione di poesia offertagli dal ricordo, dal vissuto personale e collettivo, da un dettaglio qualsiasi del circostante. Il risultato per ogni singola lirica sarà allora qualcosa di non molto diverso dalle «diciotto sfogliate ripiene» (catena di componimenti dedicati a diciotto tipi di sfoglia) che ci vengono servite come prova di «immaginazione e giudizio» (p.129) del cuoco virtuoso.

Alla varietà degli argomenti, alla grande cura formale e musicale del testo, si accompagna un tono carezzevole, elegante, a tratti ironico, che governa con estrema grazia metafore e associazioni di pensiero, senza mai azzardare attacchi sarcastici né compiacersi di minuziose e indelicate descrizioni dell’orrido, anche quando il soggetto ritratto è la carcassa di un animale («geco») o la bottega di un macellaio («macellaio»).

Il lirismo di Wagner, con una coerenza tale da essersi mantenuto pressoché invariato negli anni, si presta, quindi, a una lettura indubbiamente piacevole e “gustosa” per quella vena barocca che lo contraddistingue, e insieme invita, come suggerisce Italiano, «ad aguzzare la vista, a sentire di più» (p.335). Eppure, per alcuni – e il dibattito animatosi in Germania lo fa intuire – potrebbe non essere sufficiente.

La glorificazione del dettaglio, l’impressione di rifuggire l’attualità per ritirarsi nel privato e nella perfezione della forma hanno esposto Wagner alle critiche di chi vede nella sua poesia il ritorno a un “escapismo Biedermeier” accomodante, decorativo, che abbellisce la realtà e si rifiuta di opporre resistenza al già dato e al già scritto. La questione è tutta politica: c’è da generare un urto (intenzionale e forse addirittura violento) tra lingua, mondo e pensiero, o da dare voce a un sentimento più mite e rischiosamente “reazionario” dei luoghi e del tempo?

È pure possibile che la poesia se ne infischi dell’uno e dell’altro, e chieda solo di esistere.



Da achtzehn pasteten (diciotto sfogliate ripiene) 

18

(quittenpastete)

 

wenn sie der oktober ins astwerk hängte,

ausgebeulte lampions, war es zeit: wir

pflückten quitten, wuchteten körbeweise     

       gelb in die küche

 

unters wasser. apfel und birne reiften

ihrem namen zu, einer schlichten süße -

anders als die quitte an ihrem baum im

       hintersten winkel

 

meines alphabets, im latein des gartens,

hart und fremd in ihrem arom. wir schnitten,

viertelten, entkernten das fleisch (vier große

       hände, zwei kleine),

 

schemenhaft im dampf des entsafters, gaben

zucker, hitze, mühe zu etwas, das sich

roh dem mund versagte. wer konnte, wollte

       quitten begreifen,

 

ihr gelee, in bauchigen gläsern für die

dunklen tage in den regalen aufge-

reiht, in einem keller von tagen, wo sie

       leuchteten, leuchten

 

18

(torta di mele cotogne)

 

quando l’ottobre le appese tra i rami,

protendenti lampioni, fu tempo: noi a raccogliere

mele cotogne, che a ceste montavano

       in cucina, gialle,

 

sotto l’acqua. mele e pere maturavano,

onorando i loro nomi, verso una dolcezza

semplice – al contrario della cotogna sull’albero

       nel più remoto angolo

 

del mio alfabeto, nel latino del giardino,

dura e strana nel suo aroma. tagliammo,

squartammo, snocciolammo la carne (quattro mani

       grandi e due piccole),

 

indistinti nel vapore della centrifuga, demmo

zucchero, calore, olio di gomito per qualcosa che

crudo in bocca falliva. chi poteva, voleva comprendere

       le mele cotogne,

 

la loro gelatina, in bulbosi vasetti di vetro

allineati sugli scaffali per i giorni bui,

in uno scantinato di giorni, dove loro

       splendevano, splendono.